Che la morte sarebbe passata, prima o poi, in quel paese, sfortunato, lo
prevedevano tutti. I saggi raccontavano la leggenda. Secondo quest’ultima la
morte aveva la figura di una donna, essa con gli occhi rossi di sangue e con le
labbra asciutte dell’odio camminava per le strade desolate, toccava con le sue
mani lunghe dalle quali spuntavano delle unghie sporche tutte le superfici
delle mura, se erano ruvide o lisce ad ella non importava, le toccava e gemeva
d’un gemito tutto suo.
Gli abitanti di Orostou, la immaginavano avanzare negli asfalti e affondare
con i suoi piedi nella superficie di cemento, questi lasciavano impronte ad
ogni passo e lacrime in ogni via. Ella poi si raccontava che si nascondesse in
un vecchio capanno, ma non era un capanno normale quello! Era infatti
sottoterra, i vermi camminavano su quel suo letto ch’era fatto di carcasse di
porco e dormiva sulle orbite inesistenti d’un cranio d’animale.
Ogni notte usciva sorridente con il puzzo del male, guardinga ballava delle
macabre danze e mostrava i denti alla luna, denti ch’erano sporchi di resti di
pelle. La morte, si diceva avesse delle occasioni malevole prescelte, ella ogni
notte guardava oltre il suo capanno misterioso e osservava la luna, se la luna
accanto a sé aveva una stella la donna applaudiva gioiosa, affamata di carne.
In quelle notti rideva sguaiatamente quando si fermava a guardare gli
abitanti; erano così minuti e pestabili per lei, così miseramente piccoli e
intimoriti, ch’ella si divertiva nel notare nei loro occhi la paura. La morte
si diceva tornasse a casa sazia dopo la sua nauseante cena, tornava a casa
serena lasciando dietro di sé le grida disperate degli uomini.
Ella aveva un’amante, l’amoroso era il vento, quello forte e impetuoso, quello che faceva male al viso e toglieva la vista agli occhi, spesso uscivano insieme loro due, gli amanti del dolore, passeggiavano in quei vicoli bui abbracciati d’un canto tenebroso e maledetto. Gli abitanti non uscivano di casa in quelle sere, sapevano bene che i due furibondi erano per le strade, gli abitanti lo sapevano bene che quel vento non voleva tornare a casa senza aver mangiato qualche cuore umano. Il vento del cattivo destino lo chiamavano, quella forte energia che sembrava voler buttar giù le case e rubare le persiane da esse.
Che la morte
sarebbe passata prima o poi lo sapevano tutti, ma che avesse preso di mira quei
poveri ragazzi nessuno l’aveva immaginato e nessuno voleva credere a
quell’angosciosa musica che si aggirava per le vie; l’odio seminato dava già i
suoi germogli e la morte seduceva un altro seguace. Che la donna lugubre
sarebbe passata, era cosa certa, si sapeva, si, ma che avesse tanta fame, non
lo sapeva nessuno.
Tutto in una
volta si era presa, tutto si era portata via in una sola notte, lasciando il
corpo di Francesco Murgia a terra e dei cuori rotti più in là. Tutto aveva
mangiato la strega! Tutto ciò che di bello aveva quella famiglia perché come
dicevano gli abitanti, non ce ne era altro al mondo come Giovanni. Era forse un
modo per contemplare la morte quel dare dell’unico all’ormai corpo morto, ma
fatto sta che come Francesco non ne sarebbero nati altri. La morte aveva armato
la mano di qualcuno quella notte, e che non era una notte qualunque, la festa
della Beata era quella! Quella puttana non aveva rispettato neanche il giorno
religioso, passando svelta a suonare lo sparo. Contemplava invisibile lo
strazio, ammaliata da tante lacrime e cibante di sale godeva.
Gli abitanti non osavano neanche chiedersi cosa avesse fatto quando aveva
visto Maria, che piangente e distrutta stringeva il suo uomo, no, non volevano
neanche immaginare cosa la morte aveva fatto quando aveva sentito quello che
per lei era una melodia erotica. Poi annoiata, era tornata con le labbra rosse
dal suo vento e quella sera stessa si diceva che avessero fatto l’amore.
L’ignobile figura capace di togliere occhi alle aquile e spezzare mani ai
forti, ora dormiva, mentre il devasto raggiungeva quel povero figlio.
Tratto
dal romanzo “Barbarìa” di Pierangela Massaiu, Sa babbaiola Edizioni, anno 2021.
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